Il Jazz era la musica degli schiavi americani che lavoravano nelle piantagioni di cotone. Gli afro-americani, che avevano il ritmo nel sangue, e che naturalmente non conoscevano note, scale diatoniche o scale cromatiche, cantavano le loro canzoni e creavano la loro musica con degli strumenti musicali poveri e auto-costruiti. Le loro creazioni non erano trascritte sulla carta da musica e perciò si basavano sulla libera interpretazione che, di volta in volta, i musicisti eseguivano nelle prime Jam Session improvvisate, fuori dai loro poveri alloggi. Era nato il Blues, la prima versione del Jazz. Con l’abolizione della schiavitù l’espressione artistica-musicale degli ex schiavi andò strutturandosi, avendo a disposizione strumenti più sofisticati. Erano piccoli complessi bandistici che si cimentavano nei poveri locali pubblici frequentati esclusivamente dalla popolazione di colore.
All’inizio del XX secolo a New Orleans, la città francese sulle rive del Mississippi, c’erano locali che ospitavano esclusivamente band che suonavano Jazz. In breve la città divenne la capitale della musica afro-americana. Dopo la prima guerra mondiale, esplose la moda del Jazz in tutti gli Stati Uniti. Il proibizionismo aveva fatto nascere ritrovi nelle maggiori città americane, alcuni famosissimi, nei quali, in barba alla legge che vietava le bevande alcoliche, si consumavano fiumi di alcol. Questi night, che erano controllati dalla malavita, facevano musica Jazz, ospitando Band formate da musicisti di colore. Questo ritmo divenne la musica più diffusa durante quel periodo. Fu questo il momento in cui la denominazione “Jazz” incominciò a diffondersi; fu utilizzata per la prima volta da un giornalista, molto amico di Luis Armstrong.
L’origine della parola è incerta, alcuni l’associano all’effervescenza di questi ritmi, altri alla parola sconcia, “Jizz”, ad evidenziare l’acme di piacere che dava suonare quella musica. Un’altra teoria indica come origine di Jazz la parola Jar “vaso”, i primi musicisti di questo genere usavano vasi capovolti per ottenere le percussioni. La verità sull’origine di Jazz bisogna ricercarla nella lingua francese che all’epoca era molto diffusa sulle rive del Mississippi. “Jaser” nel dialetto francofono del luogo significava “gracchiare, fare rumore” o anche “fare l’amore”. Da Jaser si consolidò “Jass” che è la denominazione si ritrova sui giornali dell’epoca. Fu poi inglesizzato in “Jazz” con la diffusione su tutto il territorio degli Stati Uniti.
Il primo disco Jazz fu registrato nel 1917 proprio da un italiano, originario della Sicilia, Nick La Rocca. Il padre di Nick era stato trombettiere della banda dei bersaglieri comandati da La Marmora. Poi, nel 1868, era emigrato in America insieme al fratello, unendosi a una folta colonia di siciliani di New Orleans. Sulla facciata “A” del disco di La Rocca fu registrata “Lively stable blues”, sulla “B” “Original Dixieland one step”. Nick registrò i brani con la sua band “The Original Dixieland Jass band”, nella quale si esibiva alle percussioni un altro italo-americano, Tony Sbarbaro. Sui manifesti i passanti cancellavano la J di “Jass” che diventava “ass”, “culo” in italiano. I discografici per evitare questo inconveniente sostituirono “Jass” con “Jazz”. Questa è un’altra ipotesi sull’origine di “Jazz”.
Un altro italo-americano ebbe un ruolo importante nella storia del Jazz. Sharkey Bonano, ovvero Sharkey Bananas. Mise insieme una vera orchestra che si esibiva su un battello ormeggiato sul lago Pontchartrain vicino New Orleans. Poi si trasferì a New York dove fu ascoltato da Arturo Toscanini, che lo chiamò a esibirsi nella New York Philarmonic con la sua orchestra. Toscanini lo considerò uno dei migliori direttori d’orchestra jazz, era particolarmente ammirato dai suoni che riusciva a tirar fuori dai suoi strumentisti a fiato.
Con l’avvicinarsi della seconda guerra mondiale, e con il boom economico post depressione, la popolarità della musica Jazz andò oscurandosi, diventando un genere riservato alle band di colore e a pochi appassionati. Mentre in America il mito di questa musica andava scemando, in Europa il Jazz diventava sempre più popolare.
Il Jazz arrivò in Italia a inizio degli anni venti. Ma, con l’avvento del fascismo, fu proibita la musica con nomi esotici eseguita da stranieri. “Le tristezze di San Luigi”, titolo ridicolo del famoso brano jazz “St. Luis Blues”, fu cantato dal Trio Lescano e suonato dall’orchestra di Gorni Kramer, nella quale si esibiva un giovanissimo chitarrista, Franco Cerri. I nomi dei grandi del Jazz furono tutti italianizzati: Luis Armstrong in Luigi Bracciaforte e Benny Goodman in Beniamino Buonomo.
Ma, nonostante i limiti imposti dal partito fascista, la musica Jazz nell’Italia del ventennio fu seguitissima, ad iniziare proprio dalla famiglia Mussolini. A Villa Torlonia, dove abitavano i Mussolini, le note del Jazz risuonavano ogni sera. I due figli del duce, Bruno e Romano, erano degli appassionati di musica. Non mancavano di ascoltare e di strimpellare loro stessi quei ritmi proibiti, di cui naturalmente si facevano inviare direttamente dall’America i dischi originali. Anche il duce in persona, nonostante i divieti ufficiali, amava ascoltare quella musica. Romano Mussolini divenne poi uno dei più quotati musicista Jazz in Italia.
Nel 1926 l’EIAR inaugurò a Napoli la seconda stazione radio trasmittente dopo quella di Milano, Radio Napoli. Ebbe la sua prima sede in via Cesario Console, per trasferirsi, nella più comoda sede del palazzo dei Telefoni di Stato in via Depretis. Durante la guerra i tedeschi distrussero la stazione radio. Con l’arrivo degli americani la stessa riaprì a Pizzofalcone. L’antenna trasmittente fu invece sistemata sulla collina di Posillipo, all’altezza del borgo di Villanova. Subito dopo Radio Napoli trovò la sua sistemazione definitiva al Corso Umberto, nel palazzo della Singer, che era stato requisito appositamente dagli americani per ospitare la radio. Fu Charles Poletti, responsabile degli alleati per la regione Campania, a volere Radio Napoli funzionante a piena potenza, per far arrivare i messaggi delle forze di liberazione in tutta Italia.
Ogni unità navale americana aveva le proprie Band a bordo. Charles Poletti, per acquisire la benevolenza della popolazione, le invitava a suonare in pubblico e il più delle volte le esibizioni venivano trasmesse da Radio Napoli, che aveva una potenza di emissione che riusciva a coprire quasi tutta la penisola. La musica più gettonata da queste Band militari era naturalmente il Jazz. La radio, presente in molte famiglie, fece conoscere la musica americana, diffusa per la prima volta con i titoli originali e eseguita da musicisti in divisa di origine afroamericana. Poiché il Teatro San Carlo era chiuso a causa dello sfondamento del tetto causato dall’esplosione della motonave Caterina Costa, i concerti delle bande militari si tenevano oltre che nei vari teatri napoletani, nei giardini del palazzo reale di Caserta. A questi spettacoli partecipavano anche artisti e musicisti partenopei che venivano retribuiti con le am-lire e anche con generi di prima necessità.
Nel 1943 Robert Vincent, un militare americano, ebbe l’idea di produrre dischi per le truppe in missione. Nacque così la famosa V-Disc Organization che stampò migliaia di copie di tutti i più conosciuti musicisti americani, che erano ben lieti di prestare la loro opera gratuitamente a favore dei loro connazionali in divisa. Questi dischi presto invasero anche Napoli e venivano venduti di contrabbando. I maggiori jazzisti d’oltreoceano entrarono nelle case e riempirono le strade e i vicoli di musica Jazz. Era suonata e cantata dai vari Glenn Miller, Benny Goodman, Duke Ellington, Lennie Tristano e Frank Sinatra. Anche Radio Napoli dedicava lunghe ore di programmazione alla musica tratta dai V-Disc. “Personaggi del Jazz” fu il programma più ascoltato, seguito da una trasmissione di musica Jazz in onda dalla mezzanotte alle sei del mattino. A Radio Napoli collaborarono artisti che in seguito diventeranno famosi: Mario Soldati, Arnoldo Foà, il giornalista Antonio Ghirelli. Venivano chiamati anche attori napoletani di teatro dialettale che si esibivano in programmi leggeri e umoristici.
Dopo il 1945, liberata l’intera Italia, Radio Napoli da trasmittente indipendente, controllata di fatto dai militari americani, passò sotto il controllo della RAI. L’ente radiofonico ereditò un complesso artistico e musicale di livello. A Radio Napoli era in attività una vera orchestra di musica leggera, inoltre poteva contare sull’apporto, qualitativamente elevato, delle produzioni del teatro San Carlo che già dal ‘44 presentava opere con cantanti di fama nazionale e internazionale. In quegli anni Beniamino Gigli fu una presenza continua sul palco del teatro partenopeo.
Negli anni ‘50 furono protagonisti delle trasmissioni musicali cantanti napoletani che fusero il Jazz americano con i suoni della tradizione locale. Uno dei principali interpreti della fusion Jazz/musica partenopea fu Renato Carosone. Egli aveva maturato esperienza di Jazz durante la sua permanenza ad Addis Abeba dove aveva fatto il direttore del teatro Odeon e dell’annesso night club. Poiché il ritrovo era frequentato prevalentemente da americani iniziò a creare un suo personale repertorio fatto di Jazz e Rock & Roll. Tornato a Napoli nel 1946 mise insieme un trio formato da Gegè Di Giacomo alle percussioni e Peter Van Wood alla chitarra, oltre che dallo stesso Carosone, voce e pianoforte. Iniziò a presentare le sue innovative canzoni nei locali notturni di Napoli e a Radio Napoli: Maruzzella, Tu vuò fa’ l’americano, Torero, avendo un immediato successo anche grazie alla bravura del chitarrista e ai funambolici assoli di Gegè Di Giacomo che oltre a suonare la batteria faceva da controcanto a Carosone. All’inaugurazione delle trasmissioni televisive della RAI la sua musica fu la prima ad essere lanciata in video. Nel programma “L’orchestra delle quindici” Carosone presentava il suo repertorio fatto di Jazz e Rock & Roll in salsa partenopea accompagnato da Franco Cerri alla chitarra, il solito Gegè Di Giacomo e Claudio Bernardini, voce. Nel ‘58 Carosone e il suo complesso fecero una tournée negli Stati Uniti dove si esibirono alla Carniege Hall, il tempio della musica classica di New York. L’anno seguente il musicista si ritirò dalle scene. Nel 1975 Renato Carosone tornò a esibirsi, con una memorabile serata alla Bussola di Viareggio con una diretta televisiva dal titolo “Bentornato Carosone”.
Ugo Calise fu un altro interprete della fusion americano-partenopea. Originario di Ischia, iniziò a suonare la chitarra in un duo di posteggia, formato da lui e da un violinista del San Carlo; suonavano nei migliori ristoranti napoletani. Il repertorio variava dalle canzoni classiche napoletane ai brani Jazz imparati ascoltando i V-Disc americani. Alle fine degli anni ‘40 Calise creò un proprio gruppo formato, oltre che dalla sua chitarra, da una fisarmonica suonata da Ciro Astarita, dal sassofono di Tony Grottola e da un contrabbasso, con il quale rallegrava le serate alla Conchiglia di Forio d’Ischia. In questo locale Calise ebbe modo di conoscere Romano Mussolini, anche lui valente musicista Jazz che si era trasferito nell’isola accompagnato dalla madre Rachele Mussolini. Diventati amici crearono una band in cui suonavano Romano Mussolini che si esibiva alla fisarmonica, Ugo Calise alla chitarra, Ugo Corvino al pianoforte e Vincenzo Calise alla batteria. La band si esibì in quel locale per tutto il tempo in cui Romano Mussolini rimase sull’isola.
A fine anni ‘50 un altro isolano del golfo di Napoli, il caprese Peppino di Capri (all’anagrafe Giuseppe Faiella) insieme con il suo gruppo “Capri Boys”, formato da Nino Amenta, Ettore Falconieri, Mario Cenci e Gabriele Varano, suonava nei locali notturni delle isole partenopee i ritmi che aveva ascoltato nei dischi d’oltreoceano. La sua musica coniugò il Rock, ritmo che si rifaceva al Jazz oltre che al Blues e al Folk, con il coinvolgente Twist. Venne invitato dal discografico Carish a registrare alcuni dischi a Milano. Per l’occasione “Capri Boys” fu cambiato in “I Rockers”. “Nun è peccato” e “Malatia” due lati “B” dei dischi che avevano registrato divennero due hit. Dopo i primi due successi Peppino di Capri fece il 45 giri “Let’s twist again” che era stato lanciato in America da Chubby Checker. La canzone ebbe tanto successo in Italia che anche Chubby Checker la cantava al modo di Peppino di Capri. Peppino ebbe il merito di conservare la linea melodica partenopea, coniugandola con il Rock, il Twist, il Blues.
Nel 1954 nacque a Napoli il Circolo Napoletano del Jazz su iniziativa di Antonio Livio e il fratello Tito, Franco Vaccaro e altri appassionati. Rimase memorabile la serata di inaugurazione nei locali del Circolo della Stampa con la partecipazione della cantante italo-maltese Lilian Terry, la musa del Jazz alle latitudini mediterranee.
A partire dagli anni ‘70 un gruppo di giovani musicisti napoletani andò alla ricerca di una nuova chiave ritmica che potesse operare la fusion tra la tradizione della musica napoletana e il Rythm and Blues afro-americano, antesignano delle sonorità del Jazz. Essi erano Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, Rino Zurzolo, Tullio De Piscopo, Enzo Avitabile e i neri a metà James Senese (madre italiana e padre afro-americano) e Mario Musella (madre italiana e padre nativo americano).
Pino Daniele fu il maggior esponente di questo nuovo “sound”. Iniziò a suonare con Zurzolo e Avitabile, per entrare nel 1976 nell’ensamble “Napoli Centrale” come bassista. Negli anni ‘80 partecipò al concerto di Bob Marley a Milano. Con l’incisione dell’album “Nero a metà” certificò la nascita del “Neapolitan power”, un sound partenopeo creato con la fusione di Rock, di Blues e di Jazz. Cantò a San Siro con Carlos Santana e Bob Dylan. Fece dischi con Chick Corea e George Benson. Chiuse il decennio con l’album “Mascalzone latino” che poi divenne il nome del team velico che partecipò alla America’s cup. Nel ‘95 registrò “Non calpestare i fiori nel deserto” nel quale mescolò pop, oriente e Africa insieme a sonorità napoletane, seguito due anni dopo da un altro album “Dimmi cosa succede sulla terra”. Nino Daniele si spense prematuramente nel 2015.
Radio Napoli e i Jazzisti partenopei furono i pionieri nella diffusione popolare in Italia delle sonorità d’oltreoceano nei difficili anni del dopoguerra, la musica Jazz afro-americana, che aveva le sue fondamenta nel Blues e che generò il Rock & Roll, il Dixieland, il Swing, il Bepop e tutti i ritmi oggi in voga.
(Foto in alto: Radio Telefunken del 1950, Ricce 2009)