Breccia di Porta Pia, litografia della seconda metà del XIX secolo, immagine tratta dal sito storico.beniculturali.it, Creative Commons attribuzione 3.0

LA BRECCIA DI PORTA PIA E LA PRESA DI ROMA

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Quando Garibaldi giunse a Napoli con la Spedizione dei Mille aveva tutta l’intenzione di proseguire verso Roma per farne la capitale d’Italia. Furono Cavour e re Vittorio Emanuele II a impedirglielo. Gli accordi con Napoleone III erano stati espliciti a questo riguardo. Roma e lo Stato Pontificio non dovevano essere coinvolti nell’unificazione dell’Italia. Pazienza per le Marche e l’Umbria, che l’esercito piemontese aveva invaso per raggiungere Napoli e creare una continuità territoriale tra il nord e il sud, ma il Lazio non doveva essere invaso. A questo proposito truppe francesi erano di stanza a Roma a garanzia della integrità dei possedimenti papali. Garibaldi, amareggiato dal non poter proseguire verso Roma e dal trattamento che il Savoia gli aveva riservato al suo arrivo a Napoli, lasciò la città imbarcandosi per raggiungere la sua amata Caprera.

Il capo del governo Camillo Benso di Cavour, nel suo discorso al Parlamento del 27 marzo del 1861, dichiarò che l’obiettivo del suo governo era di far diventare Roma capitale d’Italia. Peccato che dopo pochi mesi Cavour morì lasciando questo compito ai suoi successori.

Garibaldi, durante il suo agreste soggiorno a Caprera, rimuginava sulla mancata conquista dell’Urbe. Ma, poiché era uomo d’azione, nel 1862 si recò a Palermo da dove aveva intenzione di ripartire con la sua marcia verso nord come nel 1860, questa volta proseguendo fino a Roma. Fu accolto con grande entusiasmo dalla popolazione siciliana. Durante la sua traversata della Sicilia si accodarono un gran numero di patrioti, tutti con la camicia rossa e un fucile. “O Roma o morte” era la parola d’ordine pronunciata dal generale e ripetuta dalle Camicie Rosse. Il 20 agosto Garibaldi arrivò a Catania. Ormai i suoi garibaldini giungevano da tutta Italia. Sfilavano festanti per le strade della città etnea. Le autorità non sapevano che fare. Molte di loro erano convinte che dietro a un’opposizione di facciata ci fosse la volontà del governo di non impedire l’avventura romana di Garibaldi.

Il generale e i suoi uomini si impadronirono di due navi che si trovavano alla fonda nel porto di Catania. Duemila garibaldini si imbarcarono dirigendosi verso Reggio. Navi da guerra della marina italiana comandate dall’ammiraglio Albini, che erano state mandate nelle acque antistanti la città per controllare la situazione, si guardarono bene dall’intervenire. L’ammiraglio, nel dubbio che in fondo la cosa non dispiaceva al re e al governo, non disturbò il trasferimento dei garibaldini che dopo poche ore sbarcarono a Melito Porto Salvo. Duemila camicie rosse raggiunsero Reggio per poi dirigersi verso nord.

La mattina del 29 agosto truppe italiane, che ancora indossavano le divise piemontesi, sbarrarono il passo ai garibaldini. Sfortuna volle che, nonostante Garibaldi e gli ufficiali piemontesi raccomandassero di non aprire il fuoco, partirono delle scariche di fucileria dal lato dell’esercito regolare. I garibaldini risposero. Ci furono lunghi istanti di fuoco prima che gli ufficiali riuscissero a fermare i loro uomini. Si contarono dodici morti tra i soldati e i garibaldini. Garibaldi era stato colpito alla gamba destra da un colpo di fucile. Il ferimento del generale fece capire a tutti la grave situazione che si era venuta a creare. Tutti, soldati e Garibaldini, si attorniarono preoccupati al ferito che giaceva appoggiato con la schiena a un albero. Il colonnello Pallavicini si avvicinò al generale e gli chiese con garbo di arrendersi. Garibaldi annuì.

Nel 1864 l’Italia firmò una convenzione con la Francia in cui era stabilito che il governo italiano sarebbe intervenuto a difendere Roma da attacchi esterni, ma non da rivolte interne allo Stato Pontificio. In cambio la Francia si impegnava a ritirare le sue truppe da Roma entro due anni dalla firma dell’accordo. Nel 1865 la capitale d’Italia fu spostata da Torino a Firenze.

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Nel 1867, alla fine della terza guerra d’Indipendenza, Garibaldi, che a Bezzecca aveva ottenuto l’unica vittoria contro gli austriaci, mise insieme un corpo di spedizione forte di 10.000 garibaldini. Nonostante l’opposizione di Vittorio Emanuele II e un frettoloso ritorno dei francesi a Roma a seguito delle notizie della spedizione, Garibaldi iniziò la sua marcia di avvicinamento a Roma. Sperava che nel frattempo i patrioti romani insorgessero contro il papa, verificando così la condizione di rivolta interna che esentava il governo italiano dall’intervenire. Questo non avvenne nonostante che l’avanguardia garibaldina guidata dai fratelli Cairoli giungesse sotto le mura di Roma per sollecitare la sollevazione della popolazione. I settanta garibaldini di Cairoli, che si erano accampati a Villa Glori in attesa dei rivoltosi che non si presentarono, furono affrontati dai carabinieri pontifici dai quali furono facilmente sconfitti.

Anche Garibaldi, accompagnato da pochi fedelissimi, giunse fuori le mura di Roma, sperando inutilmente che la sua presenza risvegliasse il patriottismo dei romani. Il generale prese atto del fallimento della spedizione e decise la ritirata dei suoi volontari. Il 3 novembre del 1867 la colonna di garibaldini si scontrò a Mentana con l’esercito pontificio e con le truppe francesi. La battaglia volse a favore di questi ultimi. I francesi erano armati con moderni fucili a retrocarica che avevano una velocità di fuoco non paragonabile ai vecchi fucili ad avancarica dei volontari italiani. Garibaldi e solo 5.000 dei suoi uomini riuscirono a raggiungere il suolo italiano.

Fu la guerra franco-prussiana scoppiata il 19 luglio 1870, che si risolse poi con una cocente sconfitta della Francia e la rinuncia al trono di Napoleone III, a determinare le condizioni favorevoli alla presa di Roma da parte del Regno d’Italia. Il governo italiano si assicurò che le altre potenze europee si dichiarassero favorevoli alla presa di Roma o non fossero interessate alla vicenda. La Francia di Napoleone III, che mirava a una non ingerenza nel conflitto franco-prussiano delle altre potenze europee, consapevole inoltre di non poter mandare truppe a difendere il papa, aderì al desiderio dell’Italia di unire a sé Roma e di farne la propria capitale.

Ad agosto il ministro della guerra del governo italiano diede disposizione al generale Cadorna di preparare una forza militare che ufficialmente doveva preservare lo Stato Pontificio da attacchi di bande armate. Essa era costituita da cinque divisioni due delle quali erano comandate da due patrioti ferventi sostenitori di Roma capitale, il generale Nino Bixio e il generale Enrico Cosenz. Il neo costituito Corpo d’Osservazione dell’Italia Centrale poteva contare su 50.000 militari.

L’8 settembre del 1870 Vittorio Emanuele fece recapitare una missiva a papa Pio IX in cui richiedeva il suo consenso all’intervento delle truppe italiane sul suolo Pontificio per far fronte a presunti pericoli rivoluzionari. La risposta di Pio IX fu negativa. Il papa fece comunque sapere ufficiosamente che non si sarebbe opposto militarmente, volendo evitare i feroci spargimenti di sangue che in quel momento si riscontravano nella guerra franco-prussiana. In effetti Pio IX era consapevole di non poter andare contro la storia, ma si riservava il diritto di protestare e di non accettare la perdita dello Stato Pontificio.

Non ci fu una vera e propria dichiarazione di guerra. Il Corpo d’Osservazione dell’Italia Centrale si accinse a marciare verso Roma. L’11 settembre Nino Bixio con la sua divisione attraversò il confine nei pressi di Orvieto. Lo stesso fecero ad est altre tre divisioni, tra cui quella del generale Cosenz. L’ultima avanzò sul suolo pontificio proveniente da Napoli.

Il generale Kanzler, comandante dell’esercito pontificio, diede ordine alle sue truppe di non impegnarsi in scontri e di ripiegare verso Roma. Le truppe italiane ebbero così via libera. Il generarle Ferrero, al comando della terza divisione, occupò Viterbo. Bixio, anticipato da Ferrero a Viterbo, si precipitò con la sua divisione verso Civitavecchia. Le truppe di stanza nella città portuale si arresero e Bixio la occupò senza colpo ferire. La divisione proveniente da sud continuò la sua avanzata verso Roma senza incontrare resistenza.

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Il 14 settembre del 1870 tre divisioni erano nei pressi di Roma. Presto furono raggiunte dalle altre due. Fu completato l’accerchiamento della città. La divisione comandata da Bixio si sistemò a ridosso di Trastevere. Le tre divisioni comandate da Cosenz, Mazé de la Roche e Ferrero si schierarono tra Porta Maggiore e Porta del Popolo. Il generale Angioletti e la sua divisione si occuparono del lato sud di Roma.  

Cadorna inviò un messaggio a Kanzler chiedendogli di non opporre resistenza. La risposta fu negativa. Avrebbe difeso Roma con tutte le sue forze. L’ordine di Cadorna era che il colle Vaticano, protetto dalle mura leonine, e la Basilica di San Pietro non dovessero essere occupate dalle truppe italiane.

Pio IX aveva dichiarato che avrebbe scomunicato chi avesse ordinato di aprire il fuoco contro Roma. La cosa fu superata da Cadorna che diede incarico al tenente Giacomo Segre, che non temeva l’eventuale scomunica del papa poiché di religione ebraica, di ordinare l’apertura delle ostilità. La batteria di cannoni posta a poca distanza da Porta Pia iniziò il cannoneggiamento delle mura per aprire una breccia dalla quale le truppe italiane potessero entrare in città. Azioni diversive furono portate con attacchi di artiglieria verso Porta San Giovanni, Porta San Lorenzo e Porta Maggiore.

Alle 9 e 30 del 20 settembre le cannonate avevano creato una breccia sufficientemente ampia distante un centinaio di metri da Porta Pia. Cadorna decise che l’attacco sarebbe partito da quel varco. Mentre tre colonne si preparavano ad entrare all’interno della città fu innalzata la bandiera bianca da parte dei difensori papalini. Purtroppo la notizia della resa non raggiunse tutte le truppe schierate all’interno della città. Un gruppo di zuavi pontifici attestati a Villa Bonaparte aprì il fuoco contro un battaglione di bersaglieri uccidendone il comandante, maggiore Giacomo Pagliari. A questo punto fu suonata la carica e le colonne che attendevano al di fuori della breccia irruppero in città. Le truppe pontificie issarono diverse bandiere bianche. Bixio continuò a bombardare ancora per mezz’ora.

Le truppe italiane si attestarono dentro Roma, lasciando liberi il Vaticano, Castel Sant’Angelo e il Gianicolo, così come aveva ordinato Cadorna. Alle 17 e 30 di quel pomeriggio ci fu la firma della capitolazione del generale Kanzler a Villa Albani. Negli scontri si contarono complessivamente 20 morti e 49 feriti tra i militari che difendevano la città e 49 morti e 141 feriti nelle truppe di Cadorna.

Il giorno successivo, in base agli accordi, i militari dell’esercito pontificio abbandonarono Roma per raggiungere le proprie terre d’origine. Quelli di Roma ebbero la possibilità di ritirarsi nelle loro abitazioni. In quello stesso giorno Pio IX chiese alle autorità militari italiane di far presidiare la città leonina da truppe italiane per prevenire disordini. Il 27 settembre le truppe italiane occuparono Castel Sant’Angelo. I possedimenti papali furono limitati all’area del colle Vaticano cinta dalle mura leonine e alla basilica di San Pietro con la piazza antistante. Pio IX si rifiutò di riconoscere la sovranità italiana su Roma.

Il 2 ottobre del 1870 si svolse il plebiscito per l’annessione di Roma e del Lazio all’Italia. I “si” furono 133.681, i “no” 1.507. La decisione di Pio IX di raccomandare ai romani e ai laziali di non recarsi a votare fece apparire la vittoria dei “si” schiacciante. Il 3 febbraio del 1871 Roma fu proclamata capitale d’Italia.

Nel maggio dello stesso anno fu approvata la “Legge delle Guarentigie” che dava veste legale al principio di “libera Chiesa in libero Stato”, assicurando al pontefice una serie di garanzie per la sua indipendenza. Il pontefice non accettò tali riconoscimenti. Solo con i Patti Lateranensi del 1929 furono regolarizzati i rapporti tra la Chiesa e lo Stato Italiano.

(Immagine in alto: Breccia di Porta Pia, litografia della seconda metà del XIX secolo, tratta dal sito storico.beniculturali.it, Creative Commons attribuzione 3.0)