Palazzo Reale di Napoli, 2007, MM

CONFESSIONI DI MARIA CAROLINA

Sono tratte dal volume di Giovanni La Cecilia (1801-1880): “Storie segrete dei Borboni di Napoli e Sicilia”. Queste “Confessioni” datate 7 settembre 1814 e firmate “Carolina” secondo molti storici sono un falso creato per denigrare la odiata Maria Carolina d’Asburgo Lorena, consorte di Ferdinando IV re di Napoli e di Sicilia, soprannominata dai napoletani “la tedesca”.

Ecco cosa scrisse Giuseppe Buttà (1826-1886) nel suo volume “I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli” vol. 1: “Quel capo ameno del sig. Giovanni La Cecilia trascrive, nelle sue ‘Storie Secrete dei Borboni di Napoli’, l’ultima confessione di Maria Carolina; e come potete immaginare, lettori miei, è una terribile requisitoria contro quella sovrana, condita però di triviali e indecenti buffonate. Interpellato il signor La Cecilia, da un suo amico, come mai avesse potuto sapere quella confessione con tutte le minime circostanze, rispose: per mezzo dello spiritismo. Questa risposta non fa onore ai talenti del sig. La Cecilia, …”.

Attraverso la consultazione di altre fonti, Angelo Solmi “Lady Hamilton” – Leda Melluso “L’amante Inglese”,  risultano confermati alcuni episodi descritti nelle confessioni, come la visita al postribolo di vico San Camillo, dove queste fonti riportano che la regina non si limitò a guardare ma, per la scommessa fatta con la marchesa di San Martino e la duchessa di San Clemente per chi avesse guadagnato di più in quel luogo, le “nobildonne”  ricevettero clienti e fu la regina a vincere con un guadagno di 18 ducati.

Le “Confessioni” sono state liberamente trascritte in linguaggio corrente dall’autore del post.   

Diffidente dei preti cortigiani, che vendono nella reggia acqua benedetta ed assoluzioni a peso d’oro, spiata, oppressa e ripudiata dai miei congiunti, confido i traviamenti miei all’onesto e compassionevole abate di Hezendorf; lui solo avrà pietà di me e pregherà per il mio perdono. Lui renderà noto all’Europa le mie colpe e il mio pentimento.

Alla terra devo la mia polvere, all’umanità il racconto dei miei falli; lo scettro, il trono, la corona, non garantiscono i principi dalla morte e dalle crudeli espiazioni. Coloro che invidiano le nostre grandezze, imparino da noi che siamo i più infelici, perché a noi mancano la verità degli affetti, le gioie della famiglia e la compassione alle altrui sofferenze, la più sublime delle umane virtù.

Nacqui da una madre che reggeva un impero (Maria Teresa d’Austria, n.d.c.), e sin dalla prima infanzia mi persuasi, che diventata regina, dovessi come lei governare lo stato.

Mi educarono imperialmente, cioè nel disprezzo dell’umanità, che tutta io vedevo prostrata ai miei piedi per farsi calpestare. La natura mi donò la bellezza e l’ingegno; e siccome sovranamente venusta era la mia genitrice e bellissime le mie sorelle, conclusi che la natura stessa prodigasse esclusivamente ai principi la beltà e il genio.

Imparai molte lingue, non esclusa la greca e la latina, studiai coi miei germani Giuseppe e Pietro Leopoldo le lettere e la filosofia, e divenni spregiudicata, spirito forte, e desiderai come essi quelle riforme che mettessero fine alle usurpazioni del sacerdozio e innalzassero a potenza somma il principato. Libertà, progresso, diritti del popolo, furono sempre per me parole senza significato. Considerai sin dalla prima gioventù gli uomini destinati a ubbidire ai principi e di null’altro mi occupai.

I miei sensi ardentissimi, la fantasia più che romantica, mi rivelarono di buonora certi sollazzi, che nella giovinezza e nell’età matura divennero per me bisogni imperiosi della vita.

Sposa di Ferdinando IV, di un re di tre lustri e mezzo, padrone del più bel paese del mondo, partii da Vienna con la mente colma di poesia e di amore. Io dovevo governare il re, il reame e dividere la mia vita tra le cure del regno, gli studi piacevoli e gli affetti del consorte, che io credevo istruito, gentile e cavalleresco.

Sui confini del regno si dissiparono tutte le mie illusioni, trovai il più bestiale e goffo principe nel marito e il più zotico dei ministri, che regnava e governava al suo posto. Aborrii l’uno, detestai l’altro e posi ogni studio per dominare l’imbecille e soppiantare il ministro; ma l’accidia del giovane Ferdinando, il più grande dei suoi vizi, mi impediva ogni successo: egli non poteva sottrarsi dall’influenza di Tanucci e dallo spavento di occuparsi degli affari del regno con altro ministro o con me. Divorata dall’ambizione, sperai di aver prole maschile, e così intervenire nei consigli per il diritto che ne derivava dal contratto matrimoniale; ma la fortuna contro di me si volse, partorii tre figliuole l’una dopo l’altra; quasi abbandonata nella reggia, e non potendo interessarmi di governo, volsi l’ingegno a crearmi un partito e a soddisfare le mie passioni. Mi circondai dei più dotti di Napoli, parlai con essi di libertà, di progresso e di riforme, e feci desiderare a tutti il mio intervento nel governo.

Un polacco impiegato nella corte di Vienna, mi aveva seguito a Napoli come cavaliere di onore: era bello come l’Adone antico, mi amava freneticamente, ma non osava palesarmi il suo amore; io gli agevolai la via passeggiando sola con lui nei giardini del palazzo. La prima tresca iniziò, ma essendomene infastidita gli diedi per successore il principe di Caramanico; l’infelice se ne avvide, e partì per la guerra d’Ungheria, ove si fece uccidere. Il giovane sacerdote, cappellano della cappella reale del palazzo, mi piacque oltremodo, lo feci segretamente introdurre nel gabinetto di toeletta, udii rumori di passi, e subito mutando atteggiamento conclamai, gridando all’oltraggio, all’offesa, come la sposa di Putifarre; il re che sopravveniva, trovò il misero quasi dissennato, credendo perfidia mia l’opera dell’azzardo. Gli misero un bavaglio in bocca, io lo suggerii perché non parlasse e mi accusasse, lo caricarono di catene, lo trascinarono in un sotterraneo del Castello Nuovo, e qui lo finirono strozzandolo.

In Francia e in Germania si parlava molto dei liberi muratori; i dotti napoletani che io vedevo mi fecero comprendere che essi vi fossero iniziati. Una smania ardentissima di conoscere i loro misteri mi agitava, domandai di far parte delle loro congreghe, ma a patto di saperne i più reconditi misteri, i più segreti arcani: mi risposero di dovermi sottoporre in nome dell’uguaglianza alle prove della iniziazione e alla gerarchia dei gradi. Figlia di Cesare e avversa all’eguaglianza, mi credetti oltraggiata, e odiai la setta e i settari; ma non rinunziai a penetrarne i misteri e per riuscirvi adoperai ogni mezzo, le seduzioni, le corruzioni e perfino le mie carezze.

C’era un tedesco, che luminosa carica esercitava nel palazzo, maturo d’anni, non bello, ma di me pazzamente innamorato. Da lungo tempo iniziato alla setta, ne possedeva tutti i segreti. Accesi, provocandolo, i suoi deliri, lo sedussi , lo allacciai nelle mie spire fascinatrici, e da lui non senza lotta disperata seppi in parte ciò che io desideravo; con gli stessi mezzi appresi dagli altri amanti ancora di più, e allora convincendomi che i frammassoni erano i nemici dei troni, decisi di perseguitarli aspramente, ferocemente, non come frammassoni, la filosofia alla moda e l’esempio dei miei fratelli lo impedivano, ma quali cospiratori e ribelli; i tempi e le vicissitudini me ne porsero il destro.

Nel 1777 avendo avuto finalmente la desiderata prole maschile, entrai nel consiglio di stato, ove con arte e con ingegno opponendomi sempre al ministro e disponendo dei suffragi di tutti i consiglieri, l’obbligai a ritirarsi.

Governai col principe di Sambuca e col marchese Caracciolo, che l’uno dopo l’altro presi per amanti, onde più docili, più sommessi ubbidissero ai miei ordini nel governo del regno.

Correvano i tempi della filosofia e dell’emancipazione dal papato, io continuai nelle riforme di Tanucci contro il sacerdozio, acquistai fama di sapientissima, ed ebbi plauso ed encomi dai filosofi.

Nel 1779 a premura di Caramanico veniva nel regno un Giovanni Acton inglese ed era preposto alla direzione della marina: ci piacemmo e fummo d’accordo subito. Caramanico fu allontanato e morì di veleno in Sicilia ma non propinatogli per maleficio di Acton, come ne corse la fama, sebbene per opera di un potente nemico sacerdote, che risiedeva a Roma.

La corruzione di Acton, i suoi gusti, i suoi sistemi politici, tutto uniformandosi alle mie inclinazioni, i nostri legami divennero per lunghi anni infrangibili; e quantunque per sola lussuria a me piacesse variare, giammai mi venne in mente di allontanarlo da me. Amai quell’uomo fra tutti, giudicandolo come necessario all’esistenza.

Nel 1781, correndo il tredicesimo anno del mio regno e governando con l’Acton, ci trovavamo sovente imbarazzati e trattenuti nella conduzione degli affari dall’accidia del re, che ricusava quasi sempre di apporre la sua firma ai decreti, e se ne fuggiva a Caserta, a San Leucio e a Persano o a Mondragone; allora pensammo di farlo morire di veleno: Acton era figliuolo d’un medico, io qualche cosa intendevo di chimica, preparammo insieme il veleno vegetale del Lauro cerasoe nel vino glielo versai io stessa in una cena a tarda notte; ma fosse scarsa la dose o resistesse al veleno il suo robusto temperamento, egli non morì, invece si accrebbe in lui da quel dì la pigrizia e divenne più bestia, più idiota di prima al punto che io dovevo sempre suggerirgli le risposte in tutte le occasioni.

Fui così punita dal mio stesso fallimento, e quel delitto che consumai per esser libera con l’Acton, mi condusse ad altri misfatti. L’imbestialito Ferdinando, come guidato da segreto e inesplicabile istinto dalla notte del veneficio, o non si curava dei doveri matrimoniali o si assentava per mesi dalla reggia, e a continuare la tresca con Acton fui costretta.

In quel tempo, e prima ancora, fu detto e accertato per Napoli, che la sera per lubricità di sensi io visitassi il lupanare della via San Camillo, e qui in sacerdotessa di Venere mi trasmutassi. La fama non mentì sulle visite da me fatte a quel tristo ricovero d’impurità; ma ne esagerò lo scopo e i fatti. Furente gelosia di Acton mi spinse ad accettare la scommessa della perversa marchesa di Santo Marco, inosservata vidi ciò che si faceva, ma non m’insozzai. L’immaginazione però fu talmente colpita da quanto vidi, che più tardi me ne servii per adescare di nuovo Ferdinando e strappargli così le firme di cui avevo bisogno per gli affari del regno

La rivoluzione di Francia, che sin dai primi movimenti del popolo giudicai fatale per i troni, venne a confermare il mio odio per i frammassoni, che or da filosofi, or da enciclopedisti, avevano provocato quello scoppio, e continuavano a soffiare sul fuoco della sedizione. Ebbi intorno a me sicari e spie con gli onori e le reali munificenze, volli riabilitare l’infame mestiere di delatore. La rivoluzione della Francia accrebbe le mie ire, e quando udii la tragica fine della mia sorella Maria Antonietta e di Luigi XVI, promisi a me stessa di vendicare su tutti gli uomini, se avessi potuto, la morte dei miei congiunti, spingendo l’Europa a mortale guerra contro la Francia; annodai coalizioni, sedussi con l’oro e con le carezze un colonnello degli ussari imperiali e lo convinsi ad assassinare i plenipotenziari della repubblica francese inviati al Congresso di Radstadt e così feci svanire ogni speranza di pace. Falsificai dispacci per indurre alla guerra il goffo Ferdinando, e quando dubitai che un corriere portasse lettere che scoprivano le mie insidie, quel corriere designato come giacobino dai miei agenti fu in un baleno messo a brani dal popolo.  Uscì il nostro esercito a combattere i Francesi negli stati romani; ma tornato vinto e disfatto ci decidemmo a fuggire in Sicilia sulle navi di Nelson, lasciando ordini spietati e crudeli per distruggere non solo la flotta ma anche la città di Napoli da cima a fondo. Pignatelli viceré non ebbe l’animo per compiere l’impresa, arso il naviglio, vuotò le galere e le prigioni, armò il popolaccio; ma poscia impaurito trovò rifugio anche lui in Sicilia e io lo feci seppellire in una torre come traditore.

Una donna inglese divenuta amante di Nelson fu da me accarezzata nel solo disegno di giovarmi di lei presso l’ammiraglio britannico. Con quella donna divisi sovente la mensa, il bagno e il talamo. Usciti i Francesi da Napoli per virtù di superstiziose torme guidate da un corrotto cardinale, sapendo che una capitolazione avrebbe salvato i repubblicani di Napoli dalle vendette mie, con carezze e ricchissimi doni vinsi e inviai a Nelson la sua amante Emma Lyon, e per mezzo suo ottenni quanto io desideravo, vendicarmi dei ribelli e sterminarli.

Ritornata nel regno continuai nelle asprezze e nei disegni di muovere l’Europa contro la Francia divenuta preda del Bonaparte.

Una nuova guerra si iniziò dietro mio suggerimento; ma vinti gli Austriaci, debellati i Prussiani, non trovai altro scampo per salvare il regno da nuova invasione francese, che di ricorrere a Paolo I imperatore di Russia, il quale proteggendomi frenò la collera di Napoleone e fermò i passi del suo esercito.

Nuove insidie preparai e, contro i trattati, truppe moscovite e inglesi accolsi nel regno; ma di nuovo prevalendo la fortuna di Bonaparte, non tardarono le sue vendette a colpire la mia casa.

Ferdinando ai primi annunzi dell’avvicinarsi d’un esercito francese codardamente come sempre, se ne fuggì in Sicilia: rimasi sola per resistere e anche combattere; ma i Russi e gli Inglesi mi abbandonarono, celermente mi imbarcai sulle loro navi, e i popoli, che io cercai di fanatizzare con la religione, non corrisposero ai miei desideri, mostrandosi più inclini a favorire una nuova signoria, che a difendere l’antica. Mancò il popolo, mancò l’esercito, e quantunque io agognassi di vedere da vicino la guerra fui costretta anche io di rifugiarmi in Sicilia.

Entrarono i Francesi nella capitale con festose accoglienze, fu re di Napoli Giuseppe Bonaparte; e sebbene tutto il regno, eccetto la Calabria, fosse a loro sottomesso, non rinunziai di lottare contro la loro dominazione. I briganti, i facinorosi, i più scellerati uomini da me sedotti con lettere, con doni, con ciocche di miei capelli inviai a sconvolgere e depredare il regno. Il corso Saliceti ministro della polizia a me inviso per l’ardimento e l’ingegno riuscì a far rapire dal mio gabinetto le più segrete corrispondenze; tentai con l’oro di riaverle, e non riuscendo, decisi di far crollare con sotterranea mina il suo palazzo, onde seppellirlo sotto le macerie insieme alle mie involate carte. Io stessa dettai minutamente le istruzioni e designai gli esecutori tra i miei più fidi agenti; la casa crollò, ma il ministro ne fu illeso.

La guerra nella Calabria prese proporzioni di guerra di nazionalità e d’indipendenza; e siccome fu coinvolta in essa la società segreta dei carbonari in nome della libertà, aprii pratiche coi capi della stessa, e giovandomi della loro opera promisi liberi ordini e costituzioni e parlamenti se fossi ritornata nel regno. I Siciliani, che prima mi avevano amato, per astio verso i Napoletani della corte e odio contro i ministri mi si mostravano avversi: anche in Sicilia era sorto e particolarmente a Messina un partito francese; contro di questo mandai un marchese Artale siciliano, che ripeté gli stessi strazi delle giunte di stato di Napoli a danno dei Messinesi, martoriando e uccidendo i colpevoli e gli innocenti. Molti nobili tra i più illustri di Sicilia tentarono di fare opposizione al governo, li feci imprigionare e poi condurre nelle segrete delle isole di Sicilia. Giunse in quel tempo lord Bentinck come ambasciatore di Inghilterra e supremo duce della flotta e dell’esercito di questa nazione. Lo odiai nel vederlo, e più lo aborrii quando provò d’immischiarsi negli affari dello stato e di favellare d’una costituzione liberale.

Intanto Acton aveva ceduto agli ordini del suo governo e si era impalmato con una giovane inglese, allontanandosi da me e dagli affari, anzi da ingrato contro di me operava a favore dei suoi inglesi. L’amante di Nelson, Emma Lyon, era partita e piangeva la morte dell’ammiraglio ucciso a Trafalgar; intorno a me non rimaneva come consigliere, che il cavaliere Luigi de’ Medici col quale io avevo avuto intimi rapporti di affetto.

In quel tempo segrete lettere dell’imperatore Alessandro di Russia ingiungevano a tutti i sovrani d’Europa di lusingare, di allucinare con benevoli parole il corso Bonaparte, onde fargli credere che fosse gradito alle vecchie stirpi reali, attirarlo fra i lacci delle corti e separarlo dai popoli; questa segreta ingiunzione, l’odio contro gli inglesi e il Bentinck, e l’avere il Bonaparte sposata Maria Luisa d’Austria figliuola di mio nipote, mi determinarono ad aprire una corrispondenza con Napoleone e riuscii scaltramente a stringere con lui patti per scacciare gli Inglesi dall’isola. Queste occulte intelligenze con il Bonaparte contrastarono la spedizione tentata da Gioacchino Murat contro la Sicilia e mi aprirono la possibilità di corrispondere con il generale Manhes, che comandava da padrone assoluto nella Calabria.

Bentinck e gli inglesi unendosi con il mio proprio figlio Francesco duca di Calabria, vigliacco più di suo padre, ipocrita, finto, bacchettone, costrinsero Ferdinando a rassegnare l’autorità regale nelle mani dello stesso duca di Calabria, che ebbe il titolo di vicario generale, e per consiglio dell’Inghilterra accordò una costituzione liberalissima ai Siciliani.

Tornarono dalle isole i nobili prigionieri e furono ministri; Ferdinando si ritirò nella villa della Ficuzza e continuò a cacciare, a udir tre messe al giorno e a insozzarsi con una mala femmina, una Luisa Migliaccio principessa di Partanna, da moltissimi posseduta e da molti pagata con una pigione come una casa o un podere.  Io fui rilegata nella meschina villa di Castelvetrano e circondata di spie e di soldati del Bentinck.

Non mi piegai al destino, non cedetti alla prepotenza forestiera; e sebbene abbandonata dai grandi dello stato, impiegai ogni mezzo per distruggere gli Inglesi e i loro partigiani di Sicilia. Dei preti e dei frati che aizzavano contro l’eresia degli Inglesi me ne servii per ispirare gli stessi sentimenti nel popolo, il partito liberale indipendente accarezzai, aprii pratiche coi carbonari della Calabria e promisi ad essi costituzioni e libertà, persuasi l’infingardo re di riprendere le redini dello stato, e siccome il più grande ostacolo ai miei disegni era il duca di Calabria, il mio proprio figliuolo Francesco, ligio agli Inglesi e a me nemico, decisi di farlo morire. Non mi trattenne la voce del sangue, non mi spaventò la colpa, non sentii lo sgomento dall’enormità del caso e della tristezza della fama: donna regale e offesa, non udii che i consigli della vendetta, né cedetti che agli stimoli dell’ambizione; la passione di comandare vinceva in me i dolci affetti della natura. Ora punita, proscritta, abbandonata sento l’orrore del crimine, allora mi abbandonai all’ebbrezza del vendicarmi. Comprai il medico del duca di Calabria, egli gli porse il veleno, ma debole rimase sul cammino del reato; egli stesso lo avvertì, gli amministrò la profilassi, lo salvò dalla morte, non dalla spaventevole malattia a cui soggiacque finché visse, di un generale rilassamento di fibra, che fecero di lui un vecchio disfatto e caduco nell’età virile.

Bisognosa sempre di danaro e avvertita che uno dei magistrati della seconda giunta di stato, il siciliano Speciale, possedesse centomila once d’oro, che rapinando e vendendo la giustizia aveva accumulate e avaramente custodiva nella propria casa, gliele feci domandare in prestito, e certa delle sue ripulse, feci circondare la di lui casa da fidati agenti, presaga di quanto dovesse accadere. L’avaro dopo aver giurato al mio messaggero che nulla possedeva, la notte si disponeva a portare altrove il suo tesoro; ma assalito dai miei agenti si vide rapire il tesoro e ne impazzì e dopo pochi giorni di furiosa demenza ne morì.

La sua fama attribuì l’insania e la morte ai rimorsi delle sue atroci condanne; io mi persuasi sempre più che la fama, bugiarda, erroneamente giudicasse le azioni degli uomini.

La malattia del duca di Calabria, il denaro di Speciale, la promessa di Ferdinando di mostrarsi una volta fermo e deciso nel lungo suo regno, gli accertati aiuti di Bonaparte, tutto arrideva ai miei disegni, onde nel gennaio del 1813 troncando ogni esitazione feci rientrare il re a Palermo e pubblicare un manifesto, che annunziava il suo ritorno alle cure dello stato. Bentinck non si piegò; ma adunato il suo esercito minacciò la città, minacciò il re e fieramente mi insultò; era d’uopo respingere la forza con la forza e far cominciare dal popolo il massacro degli Inglesi. Tutto era pronto, l’ora della vendetta stava per suonare, io già mi accingevo dare il segnale, quando la vigliacca natura di Ferdinando riprendendo il suo imperio, prima ricusò di mostrarsi al popolo, poi fuggì dalla reggia, e finalmente, re d’un giorno, tornò ad affidare le redini del governo al principe Francesco come vicario generale, e soffrì che fossi bandita dalla Sicilia coi modi più ingiuriosi e soldateschi.

Sbattuta dalle tempeste verso barbari deserti lidi, dopo lunga e pericolosa navigazione pervenni a Costantinopoli, e di là per la Serbia e l’Ungheria mi ridussi a Vienna; ma qui i miei dolori raddoppiano, io muoio.

(Foto in alto: Palazzo Reale di Napoli, 2007, MM)