Quattro giornate di Napoli, 1943

LE QUATTRO GIORNATE DI NAPOLI

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Nei giorni tra il 27 e il 30 settembre del 1943 i napoletani insorsero contro gli occupanti tedeschi, che furono cacciati dalla città dopo aspri scontri.

I giorni precedenti erano stati giorni molto duri, tra bombardamenti alleati, rastrellamenti di civili, esecuzioni di persone scelte a caso tra la popolazione.

I bombardamenti, che colpirono la zona della stazione centrale, del porto e altri quartieri, avevano fatto più di 25.000 morti. Il bombardamento del 4 agosto del ’43 da solo aveva causato 3.000 vittime tra i civili inermi. La basilica di Santa Chiara era stata colpita e quasi distrutta il 4 dicembre del ’42. La nave Caterina Costa, carica di esplosivi e munizioni, scoppiò nel porto il 28 marzo del ’43 causando 600 morti e 3000 feriti in tutta la città, a causa dei pezzi di metallo che, in seguito all’esplosione, raggiunsero luoghi lontani diverse centinaia da metri dal porto.

Dopo l’8 settembre i vertici militari del comando di Napoli, generali Riccardo Pentimalli ed Ettore Del Tetto, dopo aver aiutato i tedeschi nelle loro azioni contro i civili, si diedero alla fuga in abiti civili. Le poche truppe italiane (5.000 soldati a fronte di 25.000 tedeschi in Campania) furono lasciate senza ordini né direttive. Dopo la guerra, nel 1944, i generali Pentimalli e Del Tetto furono processati e condannati a 20 anni di carcere militare per aver abbandonato il comando, pena poi ridotta per condoni e provvedimenti di grazia.

In città si ebbero i primi scontri di militari italiani e di agenti di Pubblica Sicurezza contro gli occupanti. Il 9 settembre del ’43, in via Foria, soldati e poliziotti affrontarono i tedeschi che pretendevano il loro disarmo. Dopo alcuni scontri armati i tedeschi furono catturati. I vertici militari, collusi con gli occupanti, pretesero la liberazione dei prigionieri.

Il 10 settembre ci furono scontri in via Acton, con 3 morti tra gli italiani e 3 morti tra i tedeschi. Il giorno 11 i militari tedeschi assaltarono con le mitragliatrici un albergo alla Riviera di Chiaia, dove era ospitato un distaccamento di Pubblica Sicurezza. Gli agenti risposero al fuoco con i loro fuciletti mod. 91 “corto” in dotazione alla Marina Militare e alle forze di Pubblica Sicurezza, costringendo i tedeschi alla resa.

Questa storia è tratta dal volume “NOVECENTO. Napoli e napoletani del XX secolo” di Silvano Napolitano. AMAZON.IT

Il 12 settembre furono rastrellati per le strade e le case di Napoli 4.000 uomini. Dovevano essere inviati ai lavori forzati in Germania. Lo stesso giorno il colonnello Walter Scholl assunse il comando delle forze armate a Napoli e proclamò lo stato di assedio con l’ordine di fucilare cento persone per ogni tedesco ucciso. La popolazione fu costretta ad assistere alla fucilazione di 8 prigionieri di guerra avvenuta a via Cesario Console. Colpì in modo particolare l’esecuzione di un giovane marinaio sullo scalone dell’università davanti a una folla di napoletani sgomenti e impotenti.

Gruppi di cittadini, con l’aiuto dei pochi militari presenti a Napoli, cominciarono ad armarsi, prendendo fucili, pistole e quant’altro nelle caserme della città e nei vari depositi di armi e munizioni in vista degli scontri che ormai erano inevitabili.

Il 23 settembre il colonnello Scholl ordinò lo sgombero di tutta la fascia costiera. Circa 240.000 persone furono costrette a lasciare le loro case e cercare rifugio presso altre famiglie, o in posti di fortuna come grotte ed edifici pubblici. In quei giorni ci fu la chiamata al lavoro obbligatorio per tutti i maschi tra i 18 e i 33 anni. Risposero alla chiamata solo in 150. I tedeschi iniziarono i rastrellamenti con la fucilazione immediata degli uomini che non avevano risposto alla chiamata.

Questa fu l’ultima goccia che fece scoppiare la rivolta. Non era più possibile aspettare. 30.000 persone rischiavano di essere giustiziate sommariamente. Il 26 settembre una folla disarmata, urlando contro i soldati tedeschi, riuscì a liberare alcuni giovani rastrellati.

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Il 27 settembre del 1943 scoppiarono i primi scontri armati tra la popolazione e gli occupanti. In via Belvedere al Vomero, località Pagliarone, fu fermata una automobile tedesca e ucciso il maresciallo che la guidava. I tedeschi intanto davano inizio alle operazioni di sgombero della città. Lungo le strade trovarono gruppi di insorti con i quali si accesero scontri a fuoco.

Il tenente Enzo Stimolo, a capo di 200 insorti, assaltò l’armeria di Castel Sant’Elmo. Fu conquistata, a costo di tanti caduti, nonostante l’intervento delle truppe tedesche del comando che si trovava in Villa Floridiana e del distaccamento del Campo Sportivo Littorio (oggi Collana). Immediatamente si accesero sparatorie nelle strade della collina del Vomero. Il fumo di una violenta esplosione coprì l’orizzonte. La zona tra piazza Medaglie d’oro e San Gennaro ad Antignano divenne un campo di battaglia. I tedeschi presero in ostaggio 47 persone e li rinchiusero all’interno dello stadio del Littorio, sede del loro distaccamento.

Il gruppo di insorti vomeresi, sotto la guida politica del professore in pensione Antonio Tarsia in Curia e comandato dal tenente Enzo Stimolo, si mobilitò per liberare i civili prigionieri. Avevano 200 uomini a disposizione più il rinforzo di altri 50 uomini guidati da Ciro Vasaturo. Attaccarono in forze lo stadio che era difeso da un nutrito reparto di militari germanici. Ci furono violente sparatorie, condotte anche con mitragliatrici che sparavano dall’alto dei palazzi circostanti. Lo scontro durò diverse ore. I militari di stanza nello stadio non avevano vie d’uscita. A sera il comandante dei tedeschi uscì allo scoperto con una bandiera bianca. Iniziarono le trattative che furono condotte anche presso il comando tedesco del Corso Vittorio Emanuele.

Nel frattempo altri scontri si ebbero al Bosco di Capodimonte dove si temeva che i tedeschi volessero fucilare alcuni prigionieri rastrellati. In serata vennero assaltati i depositi di armi delle caserme di via Foria e via Carbonara.

Il giorno seguente, 28 settembre 1943, tutta Napoli insorse. Fu catturata una pattuglia che si era rifugiata in una abitazione a Materdei. Altri combattimenti si ebbero a Porta Capuana, al Vasto, al Maschio Angioino. Intanto la battaglia dello stadio Littorio continuava. Gli uomini di Enzo Stimolo, dalla terrazza della palazzina a lato del campo sportivo (oggi stazione dei Carabinieri), tenevano sotto tiro i militari tedeschi che si trovavano all’interno del recinto. Alla fine questi rilasciarono tutti i prigionieri ricevendo in cambio l’assicurazione di poter abbandonare la zona indenni e raggiungere il resto della guarnigione.

Maddalena Cerasuolo, chiamata affettuosamente Lenuccia, 23 anni, era la figlia primogenita di Carlo Cerasuolo, uno dei capi della rivolta del quartiere Materdei. Ebbe il compito di procurare armi per gli insorti nei posti di polizia e nelle caserme del quartiere. Il comandante della caserma dei carabinieri di Materdei, visto il coraggio e la determinazione di Lenuccia, le propose di portare una richiesta di resa ad alcuni tedeschi che si trovavano nella fabbrica di scarpe di vico Trone, in cambio promise di dare le armi che servivano agli insorti. Lenuccia accettò, non volle considerare i pericoli che correva. I tedeschi avrebbero potuta ucciderla all’istante.

L’edificio era circondato dagli insorti napoletani che impedivano ai militari di uscire dalla fabbrica dove erano andati per rubare le pelli e i valori che si trovavano nell’edificio. Lenuccia bussò al portone e consegnò la richiesta di resa al soldato che si era affacciato al portone. Il soldato rifiutò la resa con un ghigno di schifo. Immediatamente si accese una sparatoria tra gli uomini che circondavano l’edificio e i tedeschi. Maddalena Cerasuolo fece appena in tempo a mettersi al riparo. In quella battaglia morirono alcuni insorti e alcuni militari nemici. Alla fine gli occupanti furono costretti alla resa.

Nel far ritorno a casa Lenuccia vide una pattuglia tedesca su un sidecar che si era fermata per chiedere a un vecchio che passava dove si trovasse il ponte della Sanità. Intuì immediatamente che avevano intenzione di far saltare il ponte. Si mise a correre a perdifiato, raggiunse il padre Carlo e gli riferì i suoi timori. Carlo Cerasuolo, riuniti pochi insorti che si trovavano nei pressi: “Jamme guagliù, facimme ampresse”, si avviò di corsa verso il ponte. Lenuccia corse attraverso via Santa Teresa per avvisare quante più persone avesse potuto. Incrociò un macellaio del quartiere, un omone grande e grosso con indosso il suo camice bianco insanguinato, poiché aveva interrotto a metà una macellazione. Con due pistole, una per mano, correva verso il ponte. Aveva appena saputo dei tedeschi, e non aveva perso tempo per dare il suo aiuto.

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Radunati alcuni insorti, Maddalena raggiunse il padre su un lato del ponte della Sanità. Era in corso una sparatoria contro i tre tedeschi che già avevano minato il ponte. Anche Lenuccia partecipò alla sparatoria con un vecchio, ma sempre efficace, moschetto 91. Poiché i tedeschi si apprestavano a innescare l’esplosione, uno degli insorti si infilò coraggiosamente dentro la botola stradale, dove era stato sistemato l’esplosivo, riuscendo a strappare i fili collegati al detonatore, salvando il ponte dalla distruzione.

Nel terzo giorno, il 29 settembre 1943, l’insurrezione si organizzò a livello rionale. A comandare al Vomero c’era il prof. Antonio Tarsia in Curia, a Materdei Ermete Bonomi con Carlo Cerasuolo, all’Avvocata Carmine Musella, a Capodimonte Aurelio Spoto, a Chiaia Stefano Fadda, al Vasto Tito Murolo, negli altri quartieri Francesco Cibarelli, Amedeo Manzo, Francesco Bilardo, Gennaro Zenga, Francesco Amicarelli. Tra i giovani studenti si distinse Adolfo Pansini del Liceo Sannazzaro (a cui è dedicata una targa affissa sulla palazzina dello stadio Collana). Presso il Liceo Vincenzo Cuoco si ebbero violenti scontri tra carri armati e un gruppo di 50 insorti napoletani che ebbero 12 morti e 15 feriti. Cannonate tedesche furono sparate a Ponticelli contro la popolazione civile. Si accesero scontri all’aeroporto e a piazza Ottocalli.

In via Santa Teresa un gruppo di ragazzi si opponeva con fucili e bombe a mano ad alcuni blindati tedeschi che avanzavano lungo la via per portarsi a Capodimonte. Tra questi giovani il più coraggioso era Gennarino Capuozzo.

Gennarino Capuozzo aveva solo 11 anni, era cugino di Maddalena Cerasuolo. Nonostante la sua giovane età già lavorava come garzone in un negozio, poiché il padre nel 1941 era stato arruolato ed era partito per il fronte. Si era unito a un gruppo di ragazzi scappati dal riformatorio per rivoltarsi contro i tedeschi. Il 28 settembre Gennarino e i suoi compagni avevano fatto saltare in aria, con una granata, una camionetta tedesca in via Toscanella. I militari della camionetta si erano resi protagonisti di un massacro a Miano, subito dopo Capodimonte. Poi avevano bloccato un camion, carico di soldati che seguiva a poca distanza. Gennarino con una bomba a mano si mise davanti all’automezzo bloccandolo. I tedeschi si arresero e furono fatti prigionieri da quel gruppo di insorti, formato da bambini e ragazzi.

Il 29 settembre la brigata dei “guagliuni” si era trasferita su Via Santa Teresa, strada che congiunge via Toledo con Capodimonte, dove presero posizione sul terrazzo del palazzo che ospita l’Istituto delle Maestre Pie Filippini, un centinaio di metri dopo il museo. Dal terrazzo dell’istituto i giovani sparavano contro i carri armati tedeschi che tentavano di uscire dalla città. Gennarino Capuozzo, nel lanciare alcune bombe a mano verso i “panzer”, si sporse dal terrazzo dell’istituto. In quel momento una granata, lanciata dal primo dei carri della colonna, colpì in pieno Gennarino uccidendolo all’istante.

Il sacrificio di Gennarino Capuozzo, bambino precocemente cresciuto, troppo presto eroe, fu uno degli ultimi atti della lotta armata poiché quella stessa sera i tedeschi iniziarono le trattative con gli insorti per lasciare Napoli prima dell’arrivo delle forze alleate.

Il 30 settembre 1943 i tedeschi cominciarono lo sgombero della città, gli anglo-americani si trovavano ormai alle porte. I cannoni tedeschi continuarono per tutta la giornata a bombardare dalla collina di Capodimonte, colpendo ripetutamente edifici e persone nei quartieri di Port’Alba e Materdei. Al Vomero, alla masseria Pagliarone di via Belvedere, ci furono gli ultimi scontri tra gli insorti napoletani e i tedeschi in ritirata.

Il prof. Antonio Tarsia in Curia, che aveva stabilito il suo comando nel Liceo Sannazzaro, assunse i pieni poteri civili e militari in città, dando una parvenza di amministrazione alla stessa. Durante la ritirata i tedeschi bruciarono i volumi e i “membranacei” angioini dell’Archivio di Stato che si trovavano nascosti in San Paolo Belsito.

Il 1° ottobre gli anglo-americani entrarono a Napoli accolti dalla popolazione festante. Il bilancio delle quattro giornate fu di 168 morti tra i partigiani e 159 tra i cittadini. Comunque dai registri del cimitero risultarono 562 morti. L’insurrezione armata contro i tedeschi impedì agli occupanti di fare di Napoli “cenere e fango” come aveva esplicitamente chiesto Adolf Hitler, e furono evitate, per quanto possibile, le deportazioni di massa dei suoi cittadini.

Nonostante tutto alcuni fascisti ancora resistevano in città. Sparavano proditoriamente dalle finestre contro la popolazione civile. Alcuni di questi si erano barricati in un palazzo di Materdei sparando all’impazzata contro i passanti. Maddalena Cerasuolo, insieme ad altri uomini della resistenza, cercava di snidarli dal loro covo. Un ufficiale americano arrivò con una jeep, sostituendo, con i suoi soldati, gli insorti. Li disarmò, eseguendo le diposizioni alleate, spezzando i loro fucili. Lenuccia, fece un gesto per far capire all’ufficiale che avrebbe voluto tenere il suo moschetto 91. Il militare con un sorriso le lasciò il fucile e le disse “Go home!” (vai a casa).

Maddalena Cerasuolo il giorno dopo fu invitata a palazzo reale dove incontrò il generale Montgomery che, saputo delle sue vicende, aveva voluto conoscerla di persona. Montgomery la abbracciò e la baciò, ringraziandola per quello che aveva fatto. Poco tempo dopo Maddalena fu contattata dai servizi di sicurezza degli alleati che le proposero di lavorare per il loro servizio segreto. Maddalena Cerasuolo partecipò ad alcune operazioni segrete attraversando le linee tedesche per portare messaggi agli uomini della resistenza.

La città di Napoli è stata insignita di Medaglia d’Oro al Valor Militare, la più alta onorificenza della nazione, per l’insurrezione armata contro i tedeschi durante le quattro giornate di Napoli.

Inoltre sono stati insigniti di Medaglia d’Oro al Valor Militare (alla memoria) i quattro “scugnizzi” che persero la vita nei combattimenti:
Gennaro (detto Gennarino) Capuozzo di anni 12,
Filippo Illuminato di anni 13,
Pasquale Formisano di anni 17,
Mario Menechini di anni 18.

Furono concesse undici Medaglie d’Argento:
Giuseppe Maenza (alla memoria), Giacomo Lettieri (alla memoria), Antonino Tarsia in Curia, Stefano Fadda, Tito Murolo, Giuseppe Sances, Francesco Pintore, Nunzio Castaldo, Fortunato Licheri, Salvatore Ponticelli, Amabile Rizzo.

Furono distribuite sette Medaglie di Bronzo:
Maddalena (detta Lenuccia) Cerasuolo, Domenico Scognamiglio, Ciro Vasaturo, Carlo Abate, Eugenio Frezzotti, Carmine Muselli, Antonio Paolillo.