Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V re di Spagna, era l’ultima esponente della potentissima famiglia Farnese che aveva nei suoi feudi il Ducato di Parma e Piacenza, ed era l’erede della famiglia dei Medici, granduchi di Toscana. I suoi tre figli maschi, avuti con Filippo, non avrebbero potuto aspirare al trono di Spagna, venendo dopo Luigi e Ferdinando, figli di Filippo V e della prima moglie Maria Luisa di Savoia. Elisabetta si adoperò in tutti i modi, mettendo in campo i rapporti che la sua famiglia intratteneva con tutte le case regnanti europee, per sistemare adeguatamente i suoi figli. Il primogenito, Carlo, divenne Duca di Parma e Piacenza e Principe ereditario del Granducato di Toscana.
Carlo, o meglio sua madre Elisabetta, approfittando della guerra di successione polacca scoppiata nel 1733 alla morte del re Augusto II, mise nella sue mire il Regno di Napoli e quello di Sicilia, che erano sotto il controllo degli Asburgo d’Austria, dopo essere appartenuti per due secoli all’impero spagnolo. Carlo, appena diciottenne, fu alla testa dell’esercito spagnolo, formato da truppe iberiche, valloni e della Savoia, che si diressero verso Napoli. Era coadiuvato nel comando dall’esperto José Carrillo Albornoz, conte di Montemar.
Carlo e le sue truppe, che contavano 40.000 uomini, attraversò lo Stato della Chiesa senza incontrare ostacoli e raggiunse Napoli. Nel frattempo le truppe austriache, con in testa il viceré Giulio Borromeo Visconti, si erano trasferite a Bari dove speravano di ricevere rinforzi dall’Austria via mare. Carlo entrò nella città partenopea senza colpo ferire, accolto da una folla festante di napoletani che, dopo il trentennio austriaco, vedevano con favore il ritorno spagnolo, sperando di diventare la capitale di un regno autonomo con Carlo sovrano. Il Conte di Montemar affrontò a Bitonto l’esercito austriaco il 24 maggio del 1734. Il giorno successivo gli austriaci furono sconfitti e si arresero consegnandosi alle forze nemiche. Nel trattato di pace del 1738 il Regno di Napoli e quello di Sicilia vennero assegnati a Carlo di Borbone, che fu proclamato re senza numerazione ordinale, ma che la tradizione lo ricorda come Carlo III, ordinale valido solo per il regno di Sicilia.
Il primo compito che si pose Carlo fu quello di ricostruire un esercito napoletano. Quello che avevano lasciato gli spagnoli era ridotto ai minimi termini poiché gli austriaci avevano preferito affidarsi alle proprie truppe. Gli effettivi di origine spagnola dell’esercito con cui Carlo aveva conquistato il regno preferirono rientrare in patria. Restarono le truppe di origine vallone, provenienti dai possedimenti spagnoli nelle Fiandre. Esse formarono il primo nucleo attorno al quale iniziò la ricostruzione delle forze armate napoletane e siciliane. L’esercito di Napoli e Sicilia, o Real Esercito, fu una forza militare statale. Già gli spagnoli avevano abbandonato la struttura feudale che prevedeva che le truppe fossero fornite al re dai vari nobili, che assoldavano i militari nelle loro contee, marchesati o principati. Il nucleo fondante dell’esercito borbonico era formato da truppe veterane, napoletane o provenienti da altri possedimenti del vasto impero spagnolo. A queste vennero affiancate truppe territoriali arruolate nelle varie province del regno.
Nel 1740, allo scoppio della guerra di successione austriaca, causata dal disconoscimento della Prammatica Sanzione, Carlo di Borbone rifiutò di schierarsi mantenendo il Regno di Napoli neutrale, nonostante le sollecitazioni della Spagna. I due schieramenti comprendevano Spagna, Francia e Russia che si fronteggiavano con l’Austria a cui erano alleate l’Inghilterra e il Regno di Sardegna. A causa dell’andamento altalenante degli scontri Carlo di Borbone fu invitato dal padre Filippo V, re di Spagna, a far intervenire nel conflitto truppe napoletane. Da Napoli partirono dodicimila soldati, guidati dal Duca di Castropignano, che si schierarono a fianco degli spagnoli. Conseguenza dell’intervento fu la decadenza della dichiarata neutralità del regno di Napoli.
Nel 1743 la flotta inglese entrò nel golfo di Napoli avvicinandosi alla città. Il governo napoletano, guidato dal marchese di Montealegre, fu preso completamente di sorpresa, facendo affidamento sulla dichiarata neutralità del regno. Il commodoro Martin, comandante delle navi inglesi, minacciò di bombardare la città e i suoi castelli se Carlo III non avesse immediatamente ritirato le sue truppe dal conflitto. Montealegre fu costretto ad accettare l’imposizione per evitare il bombardamento. La marina napoletana era del tutto impreparata ad affrontare la squadra inglese. Questo episodio e un oscuro tentativo di rapimento del re in persona, durante un suo trasferimento in mare tra Procida, dove si era recato per una battuta di caccia, e Napoli, effettuato da pirati barbareschi, convinsero le autorità del regno a dotarsi di una flotta militare in grado di affrontare eventuali nemici e combattere la pirateria barbaresca che ancora terrorizzava le popolazioni costiere del regno.
REAL ESERCITO
La legge voluta da Re Carlo III del 25 novembre del 1743 sancì la nascita dell’esercito napoletano e regolò la sua organizzazione. Furono preliminarmente creati 8 reggimenti di cavalleria, suddivisi in un totale di 18 squadroni, di cui 4 reggimenti erano rappresentati da dragoni e 4 erano di cavalleria propriamente detta. I dragoni erano una sorta di cavalleria leggera, cioè corpi di fanteria che utilizzavano i cavalli per operare spostamenti veloci sul campo di battaglia. I dragoni combattevano appiedati ed erano armati di una corta sciabola, di pistola e di fucile. I quattro reggimenti di cavalleria erano invece armati di pistola, di una lunga sciabola adatta ad essere usata cavalcando, di lancia.
La fanteria era divisa tra reggimenti territoriali, con soldati provenienti dalle varie province del regno, e reggimenti veterani, formati da militari di carriera e da mercenari stranieri, di nazionalità svizzera, vallone e macedone. Il reggimento macedone comprendeva tutte le altre nazionalità presenti nell’esercito: albanesi, macedoni, greci e dalmati. Gli spagnoli, per lo più figli e nipoti dei soldati spagnoli del tempo dei viceré, erano considerati napoletani e inquadrati nei reggimenti veterani. Fu creato inoltre un reggimento di fucilieri di montagna, che fu l’antesignano degli attuali reparti di alpini.
I reparti combattenti erano affiancati da un reggimento di artiglieria e varie altre squadre di artiglieri provinciali. Inoltre era presente un corpo ingegneri che si occupava del genio militare.
Il re aveva personalmente al suo servizio Guardie del corpo, Alambardieri, Guardie svizzere e italiane che, insieme, formavano la Guardia Reale.
Ai reparti napoletani si affiancavano alcune formazioni provenienti dal Regno di Sicilia: una compagnia di Alambardieri inquadrata nella Guardia Reale, un reggimento di fanteria veterana (Real Palermo), tre reggimenti di fanteria territoriale (Val di Noto, Val Demone e Val di Mazara), un reggimento di cavalleria denominato Sicilia.
Riepilogando i reparti creati da Carlo III furono i seguenti:
Cavalleria (3.737 militari)
Cavalleria di linea: 4 reggimenti
Cavalleria (Dragoni): 4 reggimenti
Fanteria (26.388 militari compresi gli artiglieri)
Veterani e mercenari esteri: 15 reggimenti
Territoriali: 15 reggimenti
Fucilieri di montagna: 1 reggimento
Artiglieria
Veterani: 1 reggimento
Varie compagnie di artiglieri che affiancavano i reggimenti territoriali
Accademia di artiglieria
Genio
Corpo degli ingegneri
Battaglia di Velletri
Durante la guerra di Secessione polacca, l’Austria, la Gran Bretagna e il Regno di Sardegna si erano accordate con il trattato di Worms per sottrarre il Regno di Napoli e quello di Sicilia ai Borbone. Di contro l’alleanza avversaria aveva raggiunto l’accordo di consegnare i ducati di Milano e Parma al secondo figlio di Filippo V Re di Spagna e di Elisabetta Farnese, Filippo di Borbone, fratello minore di Carlo III Re di Napoli e Sicilia. Decisi a scacciare i Borbone da Napoli l’esercito austriaco, comandato da Georg Christian von Lobkowitz, prese posizione a sud di Roma, nei pressi della cittadina di Velletri. Velletri era ben protetta dalla sua posizione elevata e dalle sue mura. L’esercito napoletano, affiancato da esperte truppe spagnole, aveva già ottenuto dei significativi successi nella campagna condotta nel nord Italia. Le truppe partenopee presero posizione oltre la cittadina di Velletri, fronteggiando quelle austriache. Al comando dell’esercito napoletano c’era lo stesso Re Carlo III, coadiuvato dal conte di Gages, nobile vallone (Belgio) al servizio degli spagnoli. Tra le truppe era presente anche il reggimento della Capitanata (Foggia) comandato da Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, famoso alchimista napoletano.
Durante la notte del 10 agosto l’esercito austriaco attaccò di sorpresa l’ala destra dello schieramento napoletano. Le truppe borboniche e lo stesso re dovettero arretrare velocemente per non essere accerchiate, dando modo agli austriaci di entrare nella cittadina di Velletri. I soldati comandati da Lobkowitz, credendo di aver vinto la battaglia, iniziarono il saccheggio della cittadina. Le truppe napoletane ebbero così il tempo di riorganizzarsi e a loro volta attaccarono Velletri occupata dagli austriaci, riuscendo a sconfiggerli sonoramente. Il colonnello Raimondo di Sangro e il suo reggimento furono determinanti nella vittoria borbonica. Anche i due reggimenti di Terra di Lavoro e Corona, comandati dal Duca di Ariccia, dimostrarono il proprio valore almeno pari a quello degli avversari. L’esercito napoletano, nella sua prima battaglia, dimostrò la validità dell’opera di ricostruzione delle forze armate voluta dal giovane re Carlo III permettendo di salvare il regno di Napoli e quello di Sicilia dagli appetiti dinastici asburgici.
Due anni dopo la guerra di successione il marchese di Montealegre, primo ministro del governo borbonico, fu costretto a dare le dimissioni e fu rispedito in Spagna a causa dei suoi tentennamenti tra neutralità e alleanza con la Spagna, che avevano fatto rischiare al re il suo trono. Iniziò l’emancipazione dalla Spagna, che fu completata con la nomina a segretario di stato del toscano Bernardo Tanucci, al seguito del re da quando Carlo di Borbone era diventato principe del Granducato di Toscana.
ARMATA DI MARE
Le coste del regno erano martirizzate dagli improvvisi attacchi dei barbareschi, pirati provenienti dalla Tunisia e dall’Algeria. Per mettere fine a questi raid Carlo si preoccupò di costituire una potente flotta che potesse debellare i pirati. Dopo la spedizione punitiva della flotta inglese che nel 1743 si presentò nel golfo di Napoli, minacciando la città di bombardamento se Carlo III non avesse rinunciato a partecipare alla guerra di successione austriaca, Carlo di Borbone si convinse della assoluta necessità di avere un’Armata di Mare che potesse competere anche con la flotta inglese.
Furono acquistate tre Galere dallo stato pontificio, alle quali ne fu affiancata una quarta, appositamente armata. Inoltre furono armate cinque navi: un vascello da 64 cannoni, una fregata da 50 bocche di fuoco e tre fregate con 40 cannoni. L’Armata di Mare fu completata da sei sciabecchi da 20 cannoni. Inoltre fu costituito un corpo di fanteria di marina, precursori dei moderni “marines”, con il compito di combattere nei duelli corpo a corpo dopo eventuali arrembaggi, nei combattimenti in seguito a sbarco dalle navi, e nella sorveglianza delle basi di marina.
La Real marina alla fine del regno di Carlo III contava sulle seguenti unità operative:
Squadra navi
1 Vascello con 64 bocche di fuoco
1 Fregata da 50 bocche di fuoco
4 Fregate da 40 bocche di fuoco
Squadra galere
4 galere
Squadra sciabecchi
6 sciabecchi da 20 cannoni
Fanteria di marina
Accademia della Real Marina
Guerra ai pirati barbareschi
Nel 1739, dopo il tentativo di rapimento che i pirati ebbero l’ardire di compiere nei confronti del re che tornava da Procida dopo una battuta di caccia, iniziò una vera e propria guerra, portata avanti dalla nascente marina napoletana, nei confronti delle imbarcazioni pirate. Carlo di Borbone, consapevole che le iniziative militari non avrebbero potuto risolvere il problema, inviò un suo ambasciatore a Costantinopoli per allacciare rapporti diplomatici con l’Impero Ottomano, a cui appartenevano i porti di Tripoli, Tunisi e Algeri dove erano di base le imbarcazioni dei pirati. Nel 1740 fu firmato un trattato di pace con il Gran Vizir El Haji Mohamed, con il quale l’Impero Ottomano si impegnava a far cessare i raid dei pirati barbareschi. L’anno seguente fu aperta a Napoli una rappresentanza diplomatica ottomana a cui era preposto l’ambasciatore El Haji Hussein Effendi.
Purtroppo, nonostante l’impegno di Costantinopoli che era energicamente intervenuta nei confronti dei “Bey” di Tripoli, Tunisi e Algeri, le incursioni non terminarono. Nell’agosto del 1740 due imbarcazioni dell’Armata di Mare, avendo avvistato due galeotte barbaresche che si apprestavano ad attaccare Praiano, sulla costiera amalfitana, intervennero affondando le due imbarcazioni, facendo numerosi prigionieri tra i pirati. In questa lotta si distinse in modo particolare il famoso Giuseppe Martinez, conosciuto come Capitan Peppe, a comando del suo sciabecco “S. Antonio”. Nel 1747 Capitan Peppe ebbe l’incarico di sorvegliare le coste dello stato dei presidi, le fortezze spagnole sulla costiera toscana che erano sotto il controllo napoletano. Non tardò a tornare a Napoli con uno sciabecco e 47 pirati catturati. Martinez si distinse anche a Isola di Capo Rizzuto, dove riuscì a sconfiggere una imbarcazione pirata facendo 58 prigionieri.
A causa delle numerose perdite e a seguito degli interventi di Costantinopoli che aveva interesse a mantenere buoni rapporti con uno degli stati più potenti del Mediterraneo, i raid barbareschi andarono sempre più diradandosi fin quasi a terminare. La partenza di Carlo III da Napoli nel 1759, destinato al trono di Spagna, vide il Mediterraneo meridionale pacificato, merito dell’impegno militare e degli intensi contatti diplomatici intrecciati con l’Impero Ottomano.
(Immagine in alto: Cavalleria napoletana in Lombardia, Quinto Cenni 1906)